La riflessione parte dalla lettura de “Il nichilismo” di Galimberti.
Secondo questo autore nei giovani italiani manca senso critico e voglia di teorizzare nuovi assetti; un senso del futuro insomma.
Ma davvero i giovani sono nichilisti? O addirittura si sta andando verso una deriva dove sarebbe un miraggio, avendo il nichilismo come radice almeno la voglia di cambiare, di protestare verso un presente considerato inaccettabile?
Leggiamo ora il rapporto “Giovani senza futuro” del Censis (Roma, 21 giugno 2011), il cui sottotitolo “Italiani imprigionati nel presente” ci rimanda ad un’idea, di nuovo, di un’assenza di progettualità.
Manca una visione del futuro. In Europa i nostri giovani sono quelli che meno hanno intenzione di avviare una propria attività autonoma (il 27,1% contro una media europea del 42,8%)
Gli italiani sembrano sempre più imprigionati nel presente. Con uno scarso senso della storia e senza visione del futuro. Al desiderio si è sostituita la voglia, alle passioni le emozioni, al progetto l’annuncio. In un mondo dominato dalle emozioni, conta solo quello che si prova nel presente, non la tensione che porta a guardare lontano.
La perdita di significato della scuola è uno dei sintomi più evidenti del «presentismo». I limiti dell’offerta formativa, che non garantisce il raggiungimento del successo attraverso un percorso di studi impegnativo, condiziona l’atteggiamento complessivo dei giovani italiani. Che in Europa sono quelli che danno una minore importanza alla scuola: il 50% non la ritiene un investimento valido, contro ad esempio il 90% dei giovani in Germania.
Oggi i giovani italiani sono anche quelli in Europa che meno hanno intenzione di avviare una propria attività autonoma: il 27,1% contro una media europea del 42,8%, il 74,3% in Bulgaria, il 62,2% in Polonia, il 60,6% in Romania, ma anche il 53,5% in Spagna, il 44,1% in Francia e il 40,3% nel Regno Unito. Significativa è la motivazione addotta: al 21,8% appare un’impresa troppo complicata, contro una media europea del 12,7%.
Il rattrappimento nel presente ha radici profonde: la crisi della relazione con l’altro (e l’Altro), il disfacimento della cultura del dono e del sacrificio in vista del bene comune, la crisi del sacro e la labilità dei suoi surrogati (l’esoterismo o la new age), la rimozione del senso del peccato (individuale o sociale), il primato dell’Io.
Che fare allora? Come genitori, come coach? Arrenderci? Essere presenti o lasciarci andare a ciò che appare inevitabile?
La ricerca, l’impegno, chiede energia. Da parte dei figli, da parte dei genitori. Abbiamo il dovere di continuare ad impegnarci al massimo, recuperando però quella parte di relazionalità che va oltre il procurare il bene materiale, l’apparire, l’esserci inteso come possedere. Lo spostamento verso una vita più in linea con i principi della vita stessa: sviluppo di sè, miglioramento inteso come cammino anche spirituale, aiuto disinteressato, allenamento all’Umanità a partire dalle piccole cose.
Spesso si scambia la tolleranza per amore. Tollerare gli errori è possibile, auspicabile anche in una fase di ricerca, di sviluppo, di scoperta di sè. Giustificarli, evitare di vederli e non sanzionarli, questo è invece lasciare la spugna, abdicare al proprio ruolo, arrendersi.
Recuperare il senso di un progetto di vita significa recuperare un’idea di me come essere in cammino, un essere imperfetto e proprio per questo pieno di speranza, di immaginazione, di passione. Significa che non esistono cose troppo piccole, che non esiste il domani se non si cura, fin da subito, il presente.
La sfida come Coach è quella di aiutare i giovani, i giovanissimi anche, a costruire un futuro migliore, più giusto, più equo. Il tutto passa anche dalla capacità di ribellarsi a volte, di protestare recuperando diritti e dignità di sè se il mondo non li riconosce. Ma ancora di più passa dalla capacità di conoscersi, di utilizzare le proprie Potenzialità per rendere migliore la propria vita e quella degli altri.
I genitori sono a volte preoccupati dalla sfida, dalla ribellione. Più preoccupata sarei se smettessi di pensare che la sfida, la ribellione, spesso è uno slancio di creatività, di individuazione, di costruzione del nuovo che arriva.
Non preoccupiamoci troppo della sfida in sè, dunque, ma casomai dei modi in cui si concretizza. Cogliamo l’occasione per rilanciare un dialogo più profondo, più impegnativo, magari, ma molto più importante.